Ma davvero si può imporre una cultura per decreto?

Ma davvero si può imporre una cultura per decreto?
05 Luglio 2017: Ma davvero si può imporre una cultura per decreto? 05 Luglio 2017

Con la legge n. 50/2017 il Parlamento ha istituzionalizzato la “mediazione obbligatoria”, che rimane quindi una condizione di procedibilità della domanda giudiziale in alcune materie (condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, responsabilità sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa, contratti assicurativi, bancari e finanziari).

Non si tratta di un esordio, ma di una resurrezione.

Dopo la bocciatura della Corte costituzionale (decisa con la sentenza n. 272/2012), il legislatore l’aveva reintrodotta (col d. l. n. 69/2013) in via “transitoria e sperimentale” per un quadriennio.

Alla luce del “monitoraggio” compiuto dal Ministero della giustizia in questo periodo di tempo il legislatore ha ritenuto ora di promuoverla, confermandole diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento.

In realtà questa valutazione appare sin troppo generosa, così come gli entusiastici giudizi dei suoi estimatori.

I dati pubblicati dal Ministero dimostravano, infatti, il suo fallimento.

Nel 2016 solo l’11% delle mediazioni intraprese si era concluso con un accordo tra le parti coinvolte.

La durata media della procedura nei casi in cui era proseguita oltre il primo incontro (115 giorni) era quasi raddoppiata rispetto al 2012 (65 giorni).

Quasi la metà dei 125 Organismi di mediazione controllati dagli ispettori ministeriali (su 980 esistenti) sono stati cancellati o sospesi.

Quanto all’impatto della mediazione obbligatoria sul contenzioso, basti pensare che nel 2016 le cause civili iscritte a ruolo sono state 3.472.590, mentre le mediazioni concluse con un accordo solo 20.237 (poco più dello 0,5%).

Si tratta di cifre che si commentano da sole.

E’, dunque, innegabile che per la stragrande maggioranza degli utenti del “servizio” pubblico della Giustizia la mediazione obbligatoria rappresenta solo un ulteriore ostacolo da superare nel lungo cammino verso una decisione giudiziaria, per di più foriero di costi aggiuntivi in termini di tempo e denaro.

Questa constatazione induce ad interrogarsi sui motivi di questa scelta del legislatore.

E’ noto che la politica giudiziaria di questi ultimi anni ha sterzato decisamente verso una “degiurisdizionalizzazione” del contenzioso civile che è stata presentata come la medicina in grado di guarire la giustizia italiana dalla sua patologica lentezza e la “mediazione obbligatoria” è stata presentata come la "punta di lancia" di questa nuova politica.

In altri termini, la strategia diretta ad allontanare gli italiani dalle Aule di giustizia ed a guarirli dalla loro atavica litigiosità si è strutturata su un duplice binario: un vertiginoso aumento dei costi del servizio pubblico della Giustizia civile e il tentativo di orientare coattivamente l’utenza verso i cosiddetti ADR (Alternative Dispute Resolution), primo fra tutti la mediazione.

E poiché l’esterofilia è un nostro vizio ricorrente, a questo fine non si è mancato di vantare il successo che essa riscuote in altri ordinamenti, primo fra tutti quello statunitense.

Dimenticando però due cose.

Anzitutto che la cultura (non solo giuridica) degli americani è ben diversa da quella degli italiani.

Secondariamente che negli Stati Uniti la mediazione è assolutamente volontaria.

Il suo successo, a dispetto della sua non-obbligatorietà, si spiega non solo con la “competitività” dei suoi costi rispetto a quelli delle cause civili (l’assistenza legale e peritale negli USA è molto più costosa che in Italia), ma soprattutto perché la mediazione è entrata gradualmente nella cultura degli americani, partendo dalle Università, che hanno formato i mediatori professionisti e ne hanno diffuso la conoscenza e la pratica.

Essa si è dunque imposta come fenomeno sociale perché, col tempo, l’opinione pubblica l’ha riconosciuta come socialmente (ed economicamente) utile.

Anziché seguire questa via, di dimostrato successo, ma bisognosa di tempi lunghi, in Italia abbiamo scelto invece di imporre la cultura della mediazione “per decreto”, con l’intento di ottenere lo stesso risultato immediatamente.

L’esito è stato un totale fallimento, com’era facilmente prevedibile.

Eppure sarebbe bastato pensare al destino delle “grida” di manzoniana memoria o a quello di istituti giuridici prescrittivi di più recente memoria (come il tentativo di conciliazione obbligatorio nel rito del lavoro, superato solo qualche anno prima per manifesta inefficacia).

Ma quando questo fallimento si è palesato, non abbiamo inteso arrenderci.

Poiché, si sa, nelle statistiche è sempre possibile scovare qualcosa di positivo (basta restringere il campo di indagine, focalizzandolo su qualche particolare, per trovare delle percentuali interessanti), siamo riusciti a presentare poco più di 20.000 verbali di accordo come un risultato talmente incoraggiante da indurci a perseverare.

Un altro dato avrebbe, invece, dovuto farci riflettere e convincerci a cambiare rotta.

Le poche mediazioni “volontarie” intraprese (quelle iniziate per scelta di entrambi i contendenti, e non per obbligo di legge) si sono concluse con una percentuale di accordi doppia rispetto a quella delle mediazioni obbligatorie.

Segno che la mediazione è veramente efficace solo quando entrambe le parti si convincono di sceglierla.

Ma questa convinzione nasce da una cultura che nessuno è mai riuscito ad imporre “per decreto”.

Ora possiamo solo sperare che, prima o poi, questa semplice verità si faccia strada e liberi dall’ennesimo “obbligo di legge”  una Giustizia civile che di obblighi ne già ha fin troppi.

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